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CESARE POLEMONDO CHIAIA

da "La Basilicata nel Mondo" (1924-1927)

La ristampa delle arringhe di Enrico Ferri, in cui, tra le altre orazioni aggiunte, è la difesa delle parti civili nel processo del disastro ferroviario di Grassano, avvenuto oltre trenta anni fa, mi ha risvegliato il ricordo di una figura nobilissima e originale di magistrato, Cesare Polemondo Chiaia, nato nella nostra Ruvo del Monte, piccolo ed alpestre paese del Circondano di Melfi, che ha dato alla Magistratura ed al Foro uomini di alto valore, fra i quali i Blasucci e i Caturani.
Erano quelli tempi non felici per la magistratura. Stipendi di fame, non assicurata la indipendenza dalle corruttele politiche; sopravviveva il rigurgito di elementi venuti dopo la Rivoluzione del 1860, veri o falsi patrioti, presi da ogni professione o mestiere, per esempio, anche tra i farmacisti; uno stato di cose, insomma, che fece esclamare al Ministro Ellena la frase famosa che la magistratura rendeva servizi e non sentenze, e l’Antonino declamava alla Camera la minaccia di Iebova al popolo di israele:
Tibi dabo judicem msi pientem
In quello stato di cose, emergevano magistrati insigni, figure morali elettissime, cultori di diritto che si erano fatto largo nella scienza e tipi di intransigente probità.
Fra questi andava annoverato il Chiaia. Era uomo di. molta cultura giuridica in materia civile, e pubblicò nel 1902 una acuta e dottissima monografia sulla distinzione tra l’avente causa e il terzo rimpetto all’articolo 1327 del Codice Civile. Di altre sue pubblicazioni non ho potuto aver notizia precisa, malgrado l’interessamento del Com. Pietro Cudone.
Ma quel che più spiccava in lui era una certa impetuosità morale. Non soffriva il sopruso; lo faceva montare in bestia il più lontano sospetto di sottili influenze nella giustizia. Si infischiava, se occorresse, della legge, se i fatti portavano alla repugnanza morale. Un magistrato quasi nuovo per quei tempi, che attingeva dalla vita e dalla realtà la norma del giudicare.
li processo del disastro di Grassano era circondato da prevenzioni e dalla ansia dei numerosi danneggiati e loro famiglie (ben trenta fra morti e feriti). La Società allora esercente era rappresentata da un direttore generale, fratello di un altissimo magistrato della Corte di Appello di Napoli, uomo, quest’ultimo, di eccezionale probità, ma, si intende bene, generalmente si pensava che i magistrati del Tribunale di Potenza, presieduto allora dal Ghiaia, avrebbero mangiato la foglia, Il Ghiaia fu severissimo, invece, verso gl’imputati del disastro e la Società chiamata come responsabile civile, e, nella sentenza, il Tribunale concesse considerevoli liberanze alle parti lese, nel fine di evitare lo stento di futuri e numerosi giudizi di liquidazione. La Società ottenne, il che fu forte, che l'appello venisse discusso in una Corte dell'Italia centrale, e, come era facile prevedere, gli imputati vennero assolti...
A questo modo ombroso di concepire la giustizia, il Ghiaia univa una impulsività forse eccessiva ma bella e inebriante come il vino.
Era venuto in magistratura da una famiglia dal chiaro nome ma di scarsa fortuna, ed era Pretore in una delle Preture della Provincia, quando un giorno gli si presentò una donna tutta scarmigliata e piangente, madre di molta prole, convenuta da uno dei più famosi usurai del luogo pel pagamento di una cambiale rilasciata dal defunto consorte di lei. La povera donna narrò i particolari minuti delle vessazioni subite e dei vari stentati pagamenti fino al saldo della cambiale, che l'usuraio, con vane scuse, non aveva più restituito, e che profittava della morte del debitore per incalzare la vedova a novello pagamento.
Il Ghiaia consigliò le donna a deferire immediato giuramento al creditore. E costui giurò tranquillamente di non aver ricevuto un centesimo.
Allora il giudice, alto e ossuto, chiama a sè l’usuraio. Cava dal portafogli le duecento lire di capitale, che forse erano tutto lo stipendio. Pagatevi! L’altro tentenna ma finisce per intascare il denaro. Allora il Ghiaia lo ghermisce pel colletto, e giù un ceffone: questo per gl’interessi, e giù un altro ceffone: questo per le spese! Esce infuriato dalla ruota e accompagna a calci il malcapitato strozzino fino alla piazza.
Che scandalo sublime! Che pedate evangeliche! Si narrava di lui un altro singolare episodio. Era presidente delle Assise in una delle Corti straordinarie della Provincia. Quattro imputati di assassinio, incalzati da prove schiaccianti, vengono assoluti fra lo stupore generale e i mormorii ostili del pubblico. Alla lettura del verdetto, il Ghiaia si leva, fremente, e, rivolto agli imputati, esclama: “Io dovrei, mascalzoni, ordinare la vostra liberazione, ma non sarà Cesare Polemondo Ghiaia quegli che sanzionerà il verdetto di quei dodici imbecilli,, (allora erano 12, ora son 10) e ordinò che gli assoluti continuassero a rimanere in carcere.
Fu un finimondo. Il Ghiaia sembra che subisse un provvedimento disciplinare e bisognò escogitare la procedura per rimediare a quel cosidetto sopruso presidenziale.
Chi pensi che le vecchie concezioni convenzionali hanno posto, a guardia del Tempio, la Impassibilità, per cui né la repugnanza verso la canaglia, né il dolore e il pianto dei miseri devono riverberarsi sul volto dei giudici, e la Giustizia, dall’altro lato, con gli occhi bendati, queste figure di magistrati, che soverchiano impetuosamente le architetture formali, stecchite, insipide, e diventano la passione per la giustizia, devono essere ricordate e venerate come sante se nulla vi è di alto e di possente nella vita, che possa compiersi senza profonda passione.
Ora fortunatamente i tempi sono mutati almeno in gran parte. Il soffio della guerra vivificatore degli spiriti e delle idealità ha dato il colpo mortale a quelle figure di legno, che già erano trasmortite sulla scena comica di Offembach e di Scarpetta e nei racconti ironici di Anatole France. Gli uomini di legge (avvocati e magistrati) non recitano più l'imbelle motto cedant arma logae, ma ricordano, con orgoglio, che nella voragine degli olocausti cruenti il 42 % del loro numero fu morto o ferito; e a capo di essi quel Giacomo Venezian che, dopo aver dato alla scienza il suo forte pensiero, non più giovane, volontario dette alla patria il cuore e la vita.
Naturalmente, Cesare Polemondo Chiaia non fece voli altissimi nella carriera. Fini Consigliere della Cassazione di Napoli. Con quel temperamento, era infatti da temere che, in uno scatto, avrebbe lanciato il tocco gallonato o addirittura la mazza dorata sulla faccia di qualcuno.
Del rimanente, uomo affabile e mite e arguto conversatore, conservava, a differenza di tanti piemontesi di Basilicata, l'accento del nativo e caro suo paesello montano.

da "La Basilicata nel Mondo" (1924-1927)

Autore: FEDERIGO SEVERINI

 

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